mercoledì 28 maggio 2008

'NZULARCHIA, IL VOLTO INQUIETO E SURREALE DELLA CAMORRA

Dal 27 maggio al Teatro dell'Arte il premiato spettacolo di Borrelli e Cerciello


‘Nzularchia è un’espressione che sta per itterizia, ittero, febbre gialla, ma il suo significato è riconducibile anche alla paura che, quando è particolarmente violenta, pare possa provocare queste malattie.

In una notte tempestosa, Spennacore - un camorrista costretto da anni a stare rinchiuso in quattro mura - si aggira irrequieto nelle stanze della sua casa-prigione. La sua presenza si avverte soltanto per il suono dei passi che produce e per la voce che a tratti risuona minacciosa, insieme alla furia della pioggia e del vento.

In un altro “luogo” della dimora – che fin dalle prime battute si configura come inquietante spazio della memoria rimossa - sono rintanati Gaetano, un uomo di circa trent’anni, e Piccerillo, figlio, fratellino, amico, o semplicemente personificazione del ricordo, di un’infanzia brutalizzata e, forse, mai vissuta.

Ed è proprio l’incessante confronto fra Gaetano e Piccerillo ad innescare un doloroso e travolgente processo di ricostruzione della memoria: un viaggio psicoanalitico in un ambiente surreale, capace di materializzare fantasmi del passato e di rimettere insieme i brandelli di un’esistenza straziata dall'incubo indelebile di una tragedia, che non lascia possibilità di salvezza.

Gaetano, infatti, sente di dover vendicare immani sopraffazioni, di doversi liberare di un padre geloso e assassino, che l’ha privato dell’amore materno e di un fratello mai nato, ma soprattutto, deve guarire dalla “febbre” di paura, inoculatagli dal genitore con spaventose iniziazioni, violenze fisiche e psicologiche, che trovano nell’acqua - quella del mare come quella dei rovesci temporaleschi che imperversano all’esterno - un motivo ricorrente.

Come in un giallo, lo scioglimento arriva, in tutta la sua drammaticità, soltanto nel finale, quando il velo dell’oblio – spaventosamente - si squarcia, per condurre a un tragico e, fatalmente mortale, epilogo.

OLOFONIA E VIDEORICERCA

La troupe del Crit, Centro Ricerca e Innovazione Tecnologica della Rai, guidata dal dott. Scopece, ha sperimentato al Salone, nel quadro di un accordo con il Crt, il microfono olofonico, che permetterà rivoluzionari rapporti tra teatro e video. La sperimentazione ha avuto luogo durante le prove de La licenza, di Claudio Autelli, e ha impiegato una videocamera Sony HD, per una particolare definizione dell'immagine, e soprattutto il microfono olofonico, un microfono "panoramico" in grado di cogliere la profondità di tutti i suoni provenienti da un ambiente. Tale strumento potrebbe rivoluzionare i rapporti controversi tra video e teatro, in quanto risulta capace di riprodurre con realismo l'atmosfera live di una sala teatrale. Riportiamo in seguito un esauriente articolo del Dott. Scopece, tratto dalla rivista Elettronica e telecomunicazioni, n. 2 agosto 2007, dal sito del CRIT, www.crit.rai.it.

Olofonia, una ripresa sonora di tutto ciò che ci circonda di Leonardo Scopece da Elettronica e telecomunicazioni, n. 2 agosto 2007

L'EUROPA DEI TEATRI

di Sisto Dalla Palma (testo raccolto da Ida Senoner)

Quando penso all'Europa penso a un sogno mancato, un orizzonte dove non riusciamo ad arrivare ad un reale coinvolgimento, come se l’Italia fosse un “enclave” separata e distinta dal resto dell’Europa. Del resto anche in Europa, alcune scelte di fondo diventano competenza delle grandi burocrazie. Io credo, per non essere astratto o genericamente negativo su questo assetto, che il punto di riferimento che dobbiamo avere in mente è quello di un paese dove il teatro conta veramente e dove il teatro si fa, si fa in misura nuova, forte onnipervasiva nella società con la capacità di aderire realmente ai bisogni. Mi pare che questo sia tutto sommato il modello anglosassone in cui sempre e storicamente si é cercato di mettere un muro fra la politica e la cultura e di garantire l’autonomia della cultura e del teatro.

Attraverso il circuito internazionale noi abbiamo immesso i momenti più significativi della nostra produzione, in particolare quella di Emma Dante, da “Carnezzeria” a “Cani di Bancata” alla “Scimia” che ha girato in Francia, in Spagna, in Olanda ma anche nell’America del Sud. In ogni caso mi pare che i collegamenti internazionali dimostrano non solo che ci sono spazi all’estero di tutta consistenza, ma che in alcuni casi è più facile stare all’estero, fuori delle combinazioni delle logiche degli scambi e muovendosi in una prospettiva di assoluta autonomia delle opzioni culturali ed artistiche dei vari direttori

Tutte le nostre produzioni (e sto parlando di un numero che sta fra i sette, otto-nove, nell’arco di due anni), sono tutte drammaturgie contemporanee. Questo é un elemento di classificazione un po’ estrinseco. Direi che siamo meno interessati all’autonomia del testo, della letteratura drammatica e più a lavori teatrali che siano espressione di una drammaturgia di gruppo e di un ensemble. Questo per esempio nel caso di Emma Dante, mi pare che risulti con assoluta evidenza. Ma oltre a Emma Dante noi abbiamo presentato Autelli, abbiamo presentato Facchetti, abbiamo lavorato con Mimmo Sorrentino, il quale è stato presente non con un testo generico, ma sviluppando una drammaturgia collettiva muovendo dalle scuole dei problemi reali dei ragazzi. E questo è un discorso che dovrebbe essere preso in considerazione, perché supera la vecchia logica dell’autore chiuso nella sua vecchia torre d’avorio, nella sua officina letteraria per predisporre i testi, ma si muove piuttosto in una direzione di una rete di rapporti di relazioni in cui il territorio fornisce alla drammaturgia e al teatro dei vissuti su cui lavorare e trasformare e portare a rappresentazione.

A sua volta il teatro è in grado di irrompere nel territorio, restituendo emozioni, vissuti, valori, attese, problemi che il territorio, la scuola abbiano l’animo di manifestare. Da questo punto di vista noi stiamo proprio lavorando su un progetto di formazione per attori, artisti nel campo del teatro sociale che siano in grado di intercettare questi vissuti e che si mettano nella prospettiva del lavoro di gruppo e del teatro sociale.

Ma quello che è possibile è costruire un soggetto di scrittura collettiva capace di raccordarsi immediatamente alle realtà di base.

ART IT'S HEAVY...?

di Laura Calebasso

In un mondo dove tutto è performance e la performance è tutto, è così difficile districare il pieno dal vuoto, il finto dal vero… la pubblicità scende dai cartelloni e ci interpella, per farci ridere, riflettere, talvolta supera sé stessa. Eppure succede di sentirsi come foglie secche, senza speranza di riacquisire spessore; ci rassegnamo a increspare una risata amara sulle sorti politiche, sociali e culturali del nostro essere umani.

La vicenda di Pippa Bacca e Silvia Moro è un calcio sferrato alla rassegnazione, e allo stesso tempo una rivoltella alle tempie dell’ottimismo. Una possibilità di riscatto, un sussulto e poi un gemito, forse.

Due artiste indossano abiti da sposa, e curando nel dettaglio la mediatizzazione dell’evento partono per un viaggio in autostop attraverso i Balcani, recentemente martoriati da conflitti cruenti, per poi raggiungere la Palestina. Un pazzia “una cosa un po’ da ragazzine” dice la zia, intervistata dopo la scomparsa di Pippa Bacca. Si, perché nonostante di performance mediatizzata si trattasse, di trucchi non ce n’era; il che è incompatibile con la nostra fantasia nutrita a reality. Le frasi trasognate sulla fiducia dell’uomo nell’uomo, ora ghiacciano persino gli occhi con cui le si legge.

Finalmente tutti potranno dare sfogo al disfattismo che, sempre uguale a sé stesso, inghiottisce ogni residuo di vita sul suo passaggio. Torneremo al tepore di un quotidiano senza senso, del quale continueremo a lamentarci senza fine, soddisfatti della nostra eterna insoddisfazione…

Un mare di squallore nel quale una performance disarmante e incredibile, intollerabilmente vera, esagerata e “inversamente proporzionale” ai canoni del nostro non-essere, emerge come una boa rossa di salvezza.

Voyeurismo tattile: riflessioni intorno allo sguardo che tocca, a partire da Voyeurismo tattile, un’estetica dei valori tattili e visivi di Maddalena

di Alessia Gennari

Voyeurismo tattile, ossia, quando lo sguardo impalpabile perde la sua dimensione immateriale e si fa tocco, contatto, coinvolgimento e piena compenetrazione. Quando la fruizione cessa di essere una distanziata “visione” e diventa un palpeggiamento spinto ai limiti del lecito. Quando l’arte si lascia penetrare e “tocca”, attraverso gli occhi, ogni fibra del corpo di colui che osserva.

Il “voyeurismo tattile” come categoria della fruizione artistica contemporanea è la tesi esposta da Maddalena Mazzocut- Mis nel suo saggio Voyeurismo tattile, un’estetica dei valori tattili e visivi, pubblicato da Il Melangolo nel 2002. In esso, l’autrice compie un percorso attraverso l’arte contemporanea, in particolare di tipo “performativo”, alla ricerca di una risposta alla domanda se si possa ancora o meno parlare di arte, nel nostro tempo. La risposta, scontata, è che l’arte è certo ancora viva e che ciò che è mutato non è tanto (o soltanto) il paradigma estetico, quanto quello fruitivo.

La riflessione dell’autrice si avvale di un apparato teorico importante, che fa riferimento all’estetica, in particolare settecentesca, e alle teorie relative alle relazioni intercorrenti tra i due sensi messi in gioco: tatto e vista. Prima tappa, la disamina della nota questione sollevata da William Molyneux nel 1693, che aprì uno dei maggiori dibattiti della storia della filosofia (ancora oggi irrisolto): un cieco che abbia appreso a distinguere, servendosi del tatto, una sfera dal cubo, potrà, una volta risanato, distinguere le due forme avvalendosi della sola vista? Sono vista e tatto, dunque, organi complementari o ciascuno di essi agisce sopraffacendo le capacità cognitive dell’altro? Se per il cieco si può parlare, infatti, di una dittatura del tatto che, nei casi di guarigione dalla cecità, rende spesso difficile, se non impossibile, l’adattamento al funzionamento del senso della vista, nel mondo dei vedenti esiste viceversa un predominio della vista sugli altri sensi, prossimi piuttosto alla fisicità e dunque posti nel gradino più basso della gerarchia. E se la vista dialoga con la bellezza, anzi, ne è il senso preposto, al tatto è piuttosto affidata la gestione dei rapporti con il disgustoso, una sensazione ben più fisica che speculativa.

L’arte contemporanea arriva a questo punto a riscattare il tatto. Trionfano i corpi con la loro nudità, le loro sezioni esibite, i loro liquidi (sangue, lacrime, sperma, sudore), i loro miasmi, sensazioni, dolori, orrori. Trionfa la fisicità (intesa come volume, peso, dimensione) e trionfa una fruizione della vicinanza (quella del tocco), a discapito della lontananza imposta dallo sguardo. Al tatto viene restituita dignità cognitiva e non solo: più autentico della vista fallace, solo attraverso il tatto si coglie la veridicità della realtà fisica. Non che l’arte contemporanea sia da toccare, invece che da vedere. È la vista, piuttosto, a inglobare in se le peculiarità della fruizione tattile: la vicinanza, il contatto e, soprattutto, la parzialità.

La fruizione dell’arte contemporanea è infatti una fruizione “nel dettaglio”: si osservano parti, particolari, settori, lo sguardo agisce come una mano che sonda in progressione le superfici senza poterne cogliere l’interezza. Una visione dettagliata, dunque, che indugia sul particolare scabroso, in maniera voyeuristica: la morbosità non è solo legittimata, ma addirittura richiesta, la sfera del privato e dell’intimo entrano prepotentemente nell’occhio dello spettatore, che non può far altro che toccare, non già “con mano”, ma piuttosto “con occhio”, l’oggetto vivisezionato davanti ai suoi occhi. E proprio in tale “parcellizzazione” sta il segreto della fruizione: possiamo sopportare certe espressioni dell’arte contemporanea, le più estreme e dolorose, solo perché le affrontiamo “a tentoni”, tastando qua e là con lo sguardo e sperimentando singolarmente sensi, emozioni, passioni.

Diverso dalla semplice modalità tattile, che pure va riscattata e va riconsiderata nel suo ruolo di “parente povera della vista”, diverso anche dalla semplice modalità aptica, il tattile-voyeuristico coniuga il palpare con l’occhio , la modalità di fruizione progressiva e parcellizzata, con un atteggiamento di partecipazione differenziata dei sensi, con un coinvolgimento fisiologico che viene richiesto dalla stessa rappresentazione.1

Per un’arte da toccare con gli occhi.

1 Mazzocut- Mis, M., Voyeurismo tattile, un’estetica dei valori tattili e visivi, Il Melangolo, Genova 2002.

Lo sguardo: definizione, sinonimi, contrari


di Serena Mola

Scrivere sullo sguardo nell’era dell’immagine, mistificata e mortificata, abusata e scontata, vista e subito dimenticata non è cosa facile, anzi ardua e potenzialmente poco fruttuosa, in quanto puntellata in ogni dove da insidie moralistiche, da sottese trappole banalizzanti e quant’altro. Proprio per questo, programmaticamente si vuole qui proporre un “Non ci sono più le mezze stagioni” calato proprio sul tema dello sguardo, un “si stava meglio quando si stava peggio” che fa tesoro di alcune tra le più importanti esperienze letterarie ed artistiche dal Medioevo ad oggi: tutto questo col solo scopo di rinfrescare un po’ la memoria e perché no, di allontanarsi dalle immagini patinate o insanguinate da cui già siamo oberati, lo si voglia o no.

Il gioco è semplice, basta aprire il vocabolario, anzi i vocabolari e lasciarsi trasportare dal potere evocativo che, strano ma vero, anche le asettiche definizioni lemmatiche e i suggerimenti sinonimici recano in sé a chi solo sappia, non a caso, guardare oltre la classificazione enciclopedica, la tassonomia grammaticale, la rigida distribuzione alfabetica.

Si aprono così quattro strade legate all’esplorazione verbale che si fa subito retrospezione storica, culturale e letteraria.

La primissima definizione parla di sguardo come di Atto del guardare: interessante l’impiego della parola Atto, che imprime a questa abitudine ormai automatica e inconsapevole un carico di intenzionalità. La pratica dell’osservazione viene così risarcita e nobilitata, quasi a rendere omaggio, secoli e secoli dopo, ad un’ epoca in cui lo sguardo era una tra le manifestazioni relazionali più ambite e più preziose, se non la più preziosa. Lo Stilnovo. Guinizzelli scriveva, a metà ‘200, Lo vostro bel saluto e’l gentil sguardo: gli occhi in questione erano ovviamente quelli della donna amata, che se solo rivolti al poeta lo conquistavano, infliggendogli dolorose pene d’amore, rendendolo schiavo della donna (non dimentichiamo, domina).

La stessa preziosità e, declinata diversamente, la stessa drammaticità torneranno sei secoli dopo, non si è più a Bologna ma nella Parigi appena consacrata a metropoli. L’io lirico questa volta è Charles Baudelaire, la donna ugualmente sconosciuta, è una passante, un atomo della folla. Da questa la fascinosa presenza femminile emerge per il tempo di un amore non al primo -come lo era stato quello guinizelliano- ma all’ultimo sguardo, e da cui, un istante dopo, è anonimamente reinghiottita. Il potere dello sguardo è però identico, è un incantesimo istantaneo che dà, e nel medesimo momento toglie la vita all’innamorato: dans un oeil…la douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

Oltre alla preziosità, quindi, in questo primo excursus non si può trascurare un’altra caratteristica dello sguardo, che, in effetti, è suggerita dalla seconda definizione del dizionario, la fulmineità. Al n. 2 si legge infatti: occhiata, a prima vista, subito.

Se invece si passa al n. 3, il panorama cambia completamente, in quanto la definizione recita: occhiata che esprime uno stato d’animo. La componente emotiva appena annunciata ci allontana dal sentimento amoroso, già ampiamente vagliato, e ci conduce invece verso due esperienze lontane, cronologicamente e culturalmente, ma animate dalla stessa tensione intellettuale, dalla stessa forza poetica, immaginifica e creativa: da un lato evochiamo lo sguardo del Don Chisciotte, che ha il potere di trasfigurare la realtà che lo circonda, di vedere nei mulini a vento avversari valorosi da combattere e in una massaia qualunque la principesca Dulcinea, dall’altro uno sguardo castrato, impedito, quello del Leopardi costretto dietro la siepe. Nel primo caso la vista è immaginata, nel secondo solo immaginabile, ma in entrambi è come, e più, che se fosse vera.

La terza tappa, dettata questa volta dal ricorso alla sinonimia, ci fa pensare alla degenerazione voyeuristica e morbosa dello sguardo, in riferimento ai suggerimenti: guardata, sbirciata. A questo proposito gli esempi (in prima istanza televisivi), molto meno nobili dei precedenti si potrebbero davvero sprecare, invece vogliamo citare Étant donnés, un’opera di Marcel Duchamp costituita solo apparentemente da una portone in legno ma che, invece, è stata definita “un apparecchio per sbirciare immagini”. Da due forellini si osserva infatti un vano, che a sua volta fa da appendice ad un'altra stanza con una specie di finestra. Al di là dell'apertura del muro, distesa su un mucchio di ramoscelli, si intravede una donna nuda, che regge con un braccio una piccola lampada a gas accesa, mentre sullo sfondo illuminato da una luce fioca, si delinea una visione esatta e reale di un suggestivo paesaggio naturalistico.

Infine i contrari; anche se il dizionario in questo caso non dà alcuna indicazione, si può comunque pensare l’opposto dello sguardo come cecità, e dedicare queste ultime parole alla cecità mitica di Tiresia. Egli infatti la ricevette come sorta di pena di contrappasso proprio per essersi concesso un diletto voyeuristico. A tale punizione però venne accordata una sorta di attenuante, o aggravante secondo i punti di vista: persa la vista “sensoriale”, acquisitò quella profetica, oracolare.

Si dice che il gioco è bello quando è corto, quindi lo smettiamo prima che stufi: le definizioni del dizionario sono finite, così anche questi spunti.

mercoledì 5 marzo 2008

Dal Carrum Navalis alla Nave dei Folli. Alle origini rituali del carnevale

di Roberto Caielli

Il famoso racconto manzoniano della peste è lucido esempio del significato della relazione rituale fra teatro e sacro, simboli di vita e di morte, complice il carnevale. E anche nell’intreccio dei Promessi Sposi, il cui dramma centrale è l’amore ostacolato di Renzo e Lucia, la peste, insieme agli altri macro-motivi di crisi, ovvero la carestia e la guerra, serve da propulsione allo svolgimento dell’azione, è crisi sacrificale la cui espiazione equivale all’aver colto da parte del Manzoni le cause ultime della storia. L’episodio dei monatti ha più volte denunciato analogie coi protagonisti dello spettacolo medievale, ovvero il Carnevale, momento festivo di origine rituale della performance, e i giullari, primari veicoli di estensione e divulgazione di tale materiale performativo. Uno studio più approfondito delle loro origini primitive giustifica l’allusione insistita ai monatti e agli apparitori dei Promessi Sposi: da quest’ultimi e dalle loro qualità liminali inerenti al rapporto fra vivi e morti è convenuto prendere le mosse per provare a risalire a ritroso all’origine di tali dinamiche. Nel già citato volume “Le origini del teatro italiano”, P. Toschi pone le premesse riccamente documentate per una interpretazione simbolica del Carnevale. Il Toschi, dopo aver provato esaurientemente che nel Carnevale “...cioè in quella che per secoli è stata in Italia la principale festa di Capodanno, è da riconoscere la culla della nostra commedia” ricorrendo a testimonianze etnografiche e letterarie disparate e abbondanti, lascia insinuare nel quadro diligentemente tracciato dalla prospettiva etnologica il dubbio, il locum dove il cerchio non si chiude:

Tanto più difficile ci riesce, comunque, riconoscere nelle maschere italiane gli elementi che risalgono specificamente alle anime dei morti. Ma tali elementi esistono.

Il dubbio di Toschi si trasforma in proposta d’interpretazione affascinante e in intuizione ermeneutica. Rinviando alle “Origini del teatro italiano” per le notizie e le documentazioni generali riguardo al Carnevale, proviamo ad assumere quelle informazioni utili a sondare l’ apparentemente insondabile rapporto tra le maschere e le anime dei morti incominciando dal più generico rapporto fra morte e Carnevale.

In un passo dell’introduzione alla Nave dei folli di Brant, F. Saba Sardi prova a sintetizzare il contenuto di tale analogia senza ricorrere alle categorie socio-antropologiche della liminalità e dei riti di passaggio, ma proponendo una serie di spunti interessanti:

...i carnevali medievali erano macabri: sui veicoli si esibivano, mascherati da morte, i fools, e i carri stessi erano decorati di rappresentazioni della morte. Il festum fatuorum...era un accostamento al disordine, un viaggio ctonio compiuto tramite deiezioni, cose morte, putrefatte, orgia cioè con-fusione: in-famia, vale a dire l’indicibile, l’impronunciabile, il metaforizzabile per eccellenza, fonte di ogni rivelazione e di ogni tabù...E’ forse noto che l’attuale termine carnevale ha una doppia origine: carrus navalis e carnem levare; ma la prima è sicuramente più antica, la seconda è una sovrapposizione, una razionalizzazione, in quanto il carnevale “leva”, si, la carne dal momento che precede la quaresima, ma lo fa soltanto a partire dall’XI-XII sec. in Italia, quando la Chiesa riesce a sovrapporre le proprie alle costumanze pagane di cui di cui fino a quel momento ha dovuto farsi interprete e traduttrice.

L’idea iniziale è data dall’etimologia originaria fornita dal passo citato, ovvero Carnevale da Carrum Navalis, con riferimento a tutta la vasta mitologia che utilizza la nave e il carro come simboli di morte, dall’evidente funzione di indicare il trasporto delle anime dei morti nell’aldilà. In particolare, il viaggio per acqua è raccontato nei miti antichi d’origine disparata, ma ancora oggi l’idea persiste nei resoconti degli anziani pescatori rimasti in qualche lago del nord Italia, per i quali, come ha notato il Lanternari, è usuale l’attinenza fra “l’altra sponda” e l’aldilà. Il viaggio carnevalesco di tradizione iconografica e letteraria rinascimentale, ma di dimostrata origine medievale, della nave dei folli, per esempio, è di fatto un viaggio di morti: folle deriva da follia, mantice, dunque tutto ciò che pieno di vento, vacuo. Matto “dal tardo latino matus, ebbro, affine al greco màte, cosa vana, vuota, al sicano mattabus, mogio, al provenzale mat, triste, abbattuto, al mat francese...al catalano mat...allo spagnolo - portoghese mate, al rumeno ametì, stordire.”. Nel gioco delle etimologie il richiamo al mondo dei morti è ,nei termini che designano la follia, come nella parola Carnevale, evidente. Ma l’etimologia in sè, come nota lo stesso Saba Sardi, non ha a che fare con l’archeologia, quanto piuttosto con la poesia. Benchè proprio per questo essa sia testimone di qualche verità nascosta, ci pare però un limite fidarsi “isidorianamente” dell’etimo per ricamarvi magari barocche congetture: il nome accenna piuttosto ad una indicativa traccia, una possibile via da seguire, ma non è da sola sufficiente per una esauriente interpretazione del fenomeno che il nome rappresenta. Nel nostro caso, l’etimologia di Carnevale proposta converge l’attenzione sul modello rituale fondamentale del Carnevale: il passaggio, nel quale, con le dinamica degli spazi liminali, si ravvisano le componenti socio-simboliche istituzionali del rovesciamento. Per definire il Carnevale sotto questo punto di vista occorre sondare le sue origini storiche e la sua collocazione temporale: esso è una festa, erede dei saturnali e dei lupercali romani, connessa, come si comprede anche dalla più nota etimologia (Carnevale da carnem levare), al periodo della Quaresima. Al calendario pasquale e al significato stesso della festività di Pasqua il Carnevale è, come vedremo, intimamente connesso nei secoli cristiani del Medioevo. Si tratta, come fa notare V. Turner, di una festa mobile che “fa parte di un calendario cosmologico separato dal tempo storico ordinario”. Ogni festa, in effetti, si pone con la categoria del tempo in fondamentale rapporto. Il carnevale, “sorta di liberazione temporanea della verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici...era l’autentica festa del Tempo del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento.”Il carnevale medievale è come tutte quelle feste che “ in tutte le fasi di evoluzione storica sono state legate a periodi di crisi, di svolta, nella vita della natura, della società e dell’uomo. Il morire, il rinascere, l’avvicendarsi e il rinnovarsi sono sempre stati elementi dominanti nella percezione festosa del mondo”.